Passiamo alle stramaledette bioplastiche!

DISCLAIMER: i prodotti il cui utilizzo viene descritto in questo articolo non hanno in alcun modo finanziato né questa pagina né l’autrice dell’articolo. Ogni opinione a riguardo di essi è frutto dell’esperienza personale  (e non finanziata) di Silvia.

Il 10 maggio abbiamo raggiunto l’Overshoot Day. 
To overshoot” significa letteralmente “oltrepassare”, ovvero noi, esseri umani, abbiamo già esaurito le risorse che il nostro pianeta aveva da offrirci per l’anno 2019.

Le conseguenze di questo “sold out ambientale” (magari fosse solo un concerto…) si ripercuotono non solo “boh, là, da qualche parte nel lontano nord” (la Groenlandia oggi ha 2 miliardi di tonnellate di ghiaccio in meno), ma anche pericolosamente vicino: piccolo esempio il ritrovamento di un capodoglio rosa, ripieno di plastiche per tutti i gusti, sulle spiagge della nostra Sicilia.
Parliamo, in particolare, di questo nostro vizio irriducibile, il “guilty pleasure”, un efficacissimo metodo di soffocamento del pianeta Terra che porta il nome di “plastica”.
La famigerata plastica è ovunque, ormai. Tuttavia, non è un qualcosa di semplicemente eliminabile dall’oggi al domani e in molti casi, dobbiamo essere onesti, è estremamente utile.È longeva, resistente, praticamente indistruttibile, e se osate dire il contrario potreste far sbroccare (o sbroccolare?) i super-divulgatori Bressanini e Jonathan Campeggio.

Ma quali sono, dunque, le problematiche effettivamente associate alla plastica?
Sono due, cari amici:

  1. l’origine petrolchimica;
  2. la biodegradabilità.

Ma non voglio dilungarmi troppo, il sopracitato Jonathan Campeggio ne ha ampiamente parlato nel suo articolo.
Beh ma scusa,” mi direte “io la plastica la metto nel cassonetto del riciclaggio, sono bravo, non la butto mica in mare!

Non basta. La plastica che viene effettivamente riciclata è, purtroppo, solo il 10% di tutta quella che produciamo. E ne produciamo parecchia, come potete vedere dalla figura sottostante.

Produzione globale, uso e destino della plastica in megatonnellate
[Roland Geyer et al, 2017, Science Advances, Vol.3, no 7 e1700782]

Ciò che mi ha veramente spinto a scrivere questo articolo è stata una riflessione casuale, nata dall’idea di dover cambiare spazzolino.

È veramente necessario usare spazzolini di PLASTICA?
Uno spazzolino ha una durata di vita media di tre mesi.
Quindi 4 per anno per singola persona, che moltiplicato per i 3 miliardi di persone che ne fanno uso (purtroppo non tutti nel mondo possono utilizzarlo) ???? 12 miliardi di spazzolini = 12 miliardi di plastica in più.
Perciò mi sono detta, alla francese, c’est pas possible.
Quali sono le alternative commercialmente disponibili?
Ci sarà una qualche azienda che stia buttando sul mercato la bio-plastica, no?

Prima di rivelarvi quali spazzolini alternativi io abbia recentemente comprato, devo aiutarvi a comprendere cosa siano queste fantomatiche bio-plastiche:

Bio?
Bio in che senso?
Bio perché prodotte da microorganismi?
Bio perché degradate da microorganismi?
O Bio perché prodotte a partire da alimenti bio??
Il termine “Bio” va molto di moda al giorno d’oggi, ma bisogna stare molto attenti.

Con “Bio” possiamo intendere sia prodotti di origine rinnovabile (cioè non di origine fossile – no petrolio, no carbone) sia biodegradabile (non resta a inquinare per quei famosi 100-1000 anni).
Ma anche qui casca l’asino!
Biodegradabile non è sinonimo di “lo butto in giardino e la natura fa il suo corso”.

La maggior parte della plastica biodegradabile si biodegrada sotto condizioni molto precise di temperature e pressione, condizioni che ovviamente non possiamo fornire noi nelle nostre umili dimore, ma che devono essere ottenute in impianti di compostaggio industriali.

Se buttate queste bio-plastiche nel campo dietro casa, non vi siete lavati la coscienza, anzi, avrete solo aumentato il danno.
La biodegradabilità dipende dalla struttura della plastica, non dall’origine del polimero! Ad esempio, (attenzione, paroloni in arrivo!) plastiche costituite da 100% bio-polietilene (bio-PE) e bio-polietilene tereftalato (bio-PET) non sono biodegradabili nonostante non siano di origine fossile, mentre Poli(butileneadipato-co-tereftalato (PBAT) e policaprolattone (PCL) di origine 100% petrolchimica sono considerati biodegradabili.
Invece, cosa significa che un prodotto abbia un “origine rinnovabile”?

Significa che questi sono stati ottenuti a partire da scarti dell’agricoltura (amido, legno, paglia) o che sono prodotti da microorganismi.

Un esempio di bio-polimero ottenuto a partire dall’amido è Mater-Bi® che combina amido di mais, di patate o di grano con altri additivi vari ed eventuali (e segreti, of course).

Struttura dell’amilosio
[di NEUROtiker, Wikipedia]

Ovviamente il processo utilizzato serve a rendere la bio-plastica finale più resistente rispetto all’amido usato in partenza.
Ad oggi, queste bio-plastiche sono usate per piatti/ posate/ bicchieri e anche per imballaggio di frutta e verdura.

Imballaggio bio per frutta e verdure, realizzato con Mater-Bi®
[Fonte:https://www.tuttogreen.it, licenza https://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/3.0/]

Ma scusa – vi starete chiedendo – dicevi che Bio può essere associato ai microorganismi?
Certo! Spesso i monomeri che sono alla base delle bio-plastiche sono proprio prodotti dai microorganismi.
 Saccharomyces cerevisiae e Escherichia coli sono tra i microorganismi più famosi che sono stati ingegnerizzati per poter ottenere questi “bio” monomeri.

Una lista veramente molto lunga di microrganismi e rispettivi monomeri prodotti la potete trovare qui.
Diversi batteri sono in grado di produrre poliidrossialcanoati (PHA) ,polimeri poliesteri termoplastici, usando la via di fermentazione degli zuccheri.

Batteri con granuli intracellulari di poliidrossialcanoati
[Sang Jup Lee, “Bacterial Polyhydroxyalkanoate”, Biotechnology and Bioengeneering, 1996, vol 49, p 1-14]

Inoltre, spesso queste bio-plastiche ottenute tramite microorganismi sono molto più performanti rispetto a quelle originate dagli scarti dell’agricoltura, con proprietà fisico-meccaniche simili a quelle petrolchimiche.

Sarebbe tutto perfetto se non fosse che bisogna dare da mangiare a questi microorganismi, perché mica producono ‘sti benedetti monomeri gratis. Il problema è che tipicamente questi esserini piccoli si nutrono di materie prime commestibili, non amano particolarmente la non commestibile lignocellulosa che deriva dagli scarti vegetali.

In altre parole “ci ciulano il cibo” (famosa e colta citazione). Quindi, capirete anche voi che in questo caso ci sono in ballo delle grosse problematiche di tipo etico.

Ma non finisce qui.
Questi simpatici microrganismi possono anche essere impiegati nel compostaggio della plastica. Circa tre anni fa, nel 2016, un gruppo di ricerca giapponese scoprì un nuovo batterio, Ideonella sakaiensis 201-F6, con le straordinarie e inusuali abilità di usare il PET, comunemente usato per le bottiglie di plastica, come fonte di carbonio ed energia! Parrebbe fondamentale la presenza di due enzimi: il primo scinderebbe il PET in una sostanza intermedia, successivamente degradata dal secondo enzima.

Struttura chimica della PET
[di Ju, da Wikipedia]

Successivamente, nel 2018 un gruppo di ricerca vietnamita è riuscito a isolare, partendo da scarti agricoli, il batterio termofilo Bacillus sp. BCBT21 che riuscirebbe a degradare la plastica ad alte temperature.
Quello che bisogna fare ora è investire MOLTO nella ricerca, riuscire finalmente ad abbattere le tempistiche di utilizzo di tali esserini e trovare applicazione nelle tecnologie del riciclaggio.

Ehi, non mi sono dimenticata degli spazzolini! Una azienda che vende spazzolini bioplasticosi alternativi è https://www.tiocare.com/ (e no non mi pagano per la pubblicità, giuro).
Le varie parti di questo spazzolino sono ottenute a partire da olio di ricino, canna da zucchero e acetato di cellulosa, ovvero di legno.

In base a quanto ho scritto prima bisogna, però, fare qualche distinzione e chiarezza. La cellulosa può essere sia di origine rinnovabile, sia biodegradabile: ad esempio, il polietilene è di origine rinnovabile (good) ma non biodegradabile e lo stesso vale per il nylon derivato dall’olio di ricino.

 Nel mondo ideale che vorrei, tutte le “bio-plastiche” sono biodegradabili e di origine rinnovabile, ma per il momento cerco di accontentarmi e di sostenere l’impegno di quegli scienziati che, almeno, provano a cambiare le cose in un mondo che pare essere restio a questo fondamentale cambiamento.

[Per gentile concessione dell’autrice]

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Silvia Achilli
Dottorata in Biochimica e attualmente Post-Doc in Chimica Analitica. Da ormai 4 anni residente in Francia, si batte per i diritti delle pizze maltrattate dai francesi. Quando non è prigioniera della sua gatta, diventa una appassionata fotografa dilettante ed è pazza per i viaggi.

Fonti:

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